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Perché si gioca? Perché ci si appassiona tanto al proprio personaggio e si vorrebbe il meglio per lui, per poterlo far crescere, interagire, creando non solamente un bg più o meno lungo ed articolato, ma un pensiero che sta dietro le azioni del pg, un perché delle sue scelte, del suo modo di muoversi nel mondo raccontato dal narratore? Perché si discute, si litiga a volte, si stringono patti e alleanze, si fondono legami d’amicizia e di supporto? Perché tutto questo, se stiamo parlando SOLO di un gioco?
Forse perché il giocare non è un’azione poi così semplice ed ovvia.
Mary Sheridan definisce il gioco come “l’impegno appassionato e spontaneo in una piacevole attività fisica o mentale volta a conseguire una soddisfazione emozionale” (1977 “Il gioco spontaneo del bambino. Dalla nascita ai sei anni”, Raffaello Cortina, Milano, 1984, p. 6). Pur avendo una base biologica, che è evidente nei cuccioli di ogni specie, esso si manifesta nelle forme più svariate durante l’intero arco di vita. Per ogni individuo il gioco ha sicuramente una base culturale, che si può riconoscere negli svariati giocattoli e nella dimensione ritualizzata dei giochi infantili. Alcuni teorici hanno a lungo sottolineato quanto esso costituisca un mezzo istintivo per l’esercizio delle abilità vitali fondamentali. Tuttavia il gioco non è semplicemente un esercizio. In realtà, esso si riferisce ad una certa qualità del comportamento, più che ad una particolare attività e, infatti, anche comportamenti normalmente “seri” possono essere messi in atto in modo giocoso. Kathy Sylva (“A hard-headed look at the fruits of play”, Early Child development and Care, 1984, 15) esordisce sostenendo che colui che gioca affascina chi lo osserva, e il gioco nasce dall’incontro della fantasia con le emozioni. Con alcuni colleghi aveva eseguito un esperimento con bambini per verificare quanto il gioco possa incidere sullo sviluppo dei piccoli, quale tipo di gioco sia più formativo di altri e quale ambiente stimoli maggiormente la competizione. Non mi dilungherò sulla procedura testistica, infatti ciò che è davvero importante sono i risultati ottenuti. È stata fondamentale la dimostrazione che il gioco accresce la stima di sé, apre la mente a nuove possibilità ed insegna modalità di problem solving. Il gioco è un naturale nutrimento per la concentrazione, per l’immaginazione e per la capacità di esplorazione. Kathy Sylva riferisce che Weikart, nel 1979, avendo condotto un esperimento sull’efficacia di un nuovo programma di gioco adottato da alcune scuole, ritrovò che i bambini che ne avevano fatto parte riuscivano ad integrarsi in maniera più veloce e produttiva nell’ambito lavorativo e sociale. L’enfasi posta sull’apprendimento attivo non è nuova e deriva dalle teorie sullo sviluppo mentale di Jean Piaget (1960), anche se è stato Jerome Bruner (1983) a sottolineare che il bambino è membro di una rete sociale profondamente radicata in una cultura dove, fin dalle prime settimane di vita, viene a instaurarsi una “partnership” di gioco.
Giocare è una delle funzioni da cui la mente si ossigena, può sperimentare e mettere in scena situazioni che non hanno un grande peso nella realtà di tutti i giorni, ma che permettono all’individuo di saggiare la propria elasticità e la propria resistenza alle frustrazioni. Perché giocare, oltre che emozionante e ricco di passione, è anche irritante e fastidioso. Non si può pensare di giocare davvero senza essere davvero capaci di mettersi in gioco! E questa è la cosa più difficile perché comprende diverse funzioni: la capacità di estraniarsi dal mondo reale, con le sue norme scritte e non scritte, immettersi in un “mondo Altro” che possiede altre regole, che permette altri tipi di comportamento e la possibilità di vivere altre sensazioni. Fondamentale quando si gioca è abbassare il giudizio, uscendo dai canoni che la famiglia, la scuola, il mondo del lavoro ci hanno dato come base, ma mantenendo sempre a mente che mentre si gioca, per ogni personaggio c’è SEMPRE dietro una persona. In molti si chiedono quale sia il giusto confine tra la realtà e la fantasia, tra l’immedesimazione e l’interpretazione, tra la sanità mentale e la pazzia. A mio parere la sanità sta già nella capacità di giocare (non di ruolo per forza), che somiglia anche così tanto alla capacità di leggere un romanzo e di “entrarci dentro”, di guardare un film e di gridare per la paura o piangere per la commozione. Il setting fantasy è pari all’horror, all’investigazione, al romantico, allo storico, ecc. (tutti tranne gli scritti biografici) perché si tratta comunque di storie create dalla fantasia dell’autore (o il master nelle campagne). E la fantasia prende campo da quel miscuglio magico di paure, aspettative, esperienze, desideri (miti e archetipi potrebbe dire Jung) che è proprio di ogni uomo ed è universale nel modo, ma infinito nelle possibilità. Avete presente, quando leggete un libro (qualunque esso sia, dai racconti di Lovecraft al Decameron, al Codice da Vinci, giusto per dare un’idea) e il protagonista o magari qualche altro personaggio vi rapisce la mente così da farvi fermare il respiro quando leggete momenti di tensione, farvi sorridere quando la storia prende una piega divertente, farvi arrabbiare quando al vostro eroe succede qualcosa di spiacevole e così avanti… quando vi sentite indignati, impressionati, sereni… ebbene lì state giocando. È la mente che gioca con la fantasia e non c’è nulla di più sano. Almeno fino a quando si è in grado di uscire dal gioco e di riprendere la vita reale, con le sue difficoltà e i suoi limiti. Diciamo che la mente è in grado di difendersi dallo stress della vita prendendosi qualche momento di libertà vagando con la fantasia e con la comparsa di sogni, di lapsus, di dimenticanze e di tante altre “tecniche” che mostrano i più veri desideri e le paure dell’individuo. Ma questo è normalità, come è normalità sognare di notte come con gli occhi aperti. Più di un centinaio d’anni fa, ormai, fu proprio il padre della psicoanalisi a teorizzare e a verificare nel lavoro clinico tutto questo e ancora oggi stupisce come sia vero e confutabile non solo nel lavoro con i pazienti, ma anche nella vita di tutti i giorni. Da allora i passi che sono stati fatti nello studio dell’uomo sono grandissimi e in molteplici direzioni. Di certo, ciò che può interessare gli appassionati di gdr sono gli studi di psicodramma e role playing (da non confondere col gdr di cui stiamo parlando qui!!!) che partono dal contatto tra psicologia e teatro. Altri studi ancora più vasti sono stati effettuati sul gioco nei bambini, negli adolescenti e negli adulti e autori come Melanie Klein, Donald W. Winnicott e altri che li hanno seguiti possono essere una doverosa base per analizzare meglio questo fenomeno così naturale. Perché sottoposto alle leggi della fantasia, Melanie Klein (1932, “La psicoanalisi dei bambini”, Martinelli, Firenze, 1969) afferma che il gioco è il terreno ideale in cui il bambino (e a partire da questo, l’individuo adulto) può rilassarsi soddisfacendo i propri sogni e le proprie speranze; esso permette di rappresentare le esperienze fatte secondo modalità più consone alle necessità emotive del bambino, in qualche misura più vicine anche ai suoi desideri, assomigliando in questo al sogno. Giocare significa divertirsi e, quindi, trovare delle forme adeguate per una soddisfazione istintuale; significa fantasticare e, perciò, mettere in gioco la capacità di utilizzare le fantasie in modo creativo, svincolandosi, in una certa misura, dalla realtà; richiede una certa capacità trasformativa della propria esperienza; implica la presenza di personaggi e ruoli, che possono nascere solo da una vita interna sufficientemente ricca. La registrazione del gioco spontaneo “far finta di” in un gruppo di bambini ha permesso all’autrice di osservare le diverse modalità in cui questo gioco, che sorge dalle fantasie inconsce, dai desideri, dalle paure e dalle angosce, crea delle situazioni che conducono alla conoscenza del mondo esterno. Oltre ad essere fondamentale ai fini adattativi e creativi, promuove le prime forme del pensiero ipotetico (il “come se”) e il senso di realtà.
Un altro sguardo potrebbe essere dato allo studio della vita di gruppo, qui la sociologia, ma anche grandi psicoterapeuti, a partire da Bion, possono dare notevoli contributi. Di certo, condividere con altre persone gusti e fantasie può generare discussioni che scuotono sentimenti di rabbia, fastidio, trepidazione, questo non va comunque assolutamente interpretato come un fattore negativo, tutt’altro, solo con l’interazione e una capacità di aprire la mente a diverse posizioni dalla propria può avvenire la vera crescita interiore.
Attualmente il gdr inizia ad essere studiato come possibilità di lavoro clinico, ma ciò non toglie che al suo interno, come in qualsiasi altra attività più o meno piacevole, possano emergere tensioni personali e sociali che vadano ad impattare come un boomerang contro gli altri giocatori e l’intero gruppo, col rischio e la realtà, a volte, di far e farsi del male. Allo stesso modo possono nascere conflitti anche nelle discussioni sul gdr, che spesso vengono iniziate con i migliori auspici, ma concluse nelle peggio maniere. Su questo io sorrido perché significa che chi si accalora così tanto è capace di emozionarsi, di prendere a cuore una questione e di cercare di difendere le proprie idee, come qualunque altro appassionato. Mi vengono in mente svariate ricerche in ambito socio-psicologico che sono andate ad indagare le dinamiche interne e di gruppo nelle situazioni conflittuali e competitive. Dagli studi di Sherif (1961), Campbell (1965), Tajfel e Turner (1979), Rappaport (1987), solo per citarne alcuni, sono emerse quanto le fonti del conflitto siano insite nella natura umana e che nascano dal difendere prima di tutto il proprio rispetto, le proprie idee, prima di un bene fisico, ma anche dalla competizione con chiunque altro che sembri minacciare “il proprio territorio”. Insomma, le cose peggiorano con una comunicazione mediocre e con la netta sensazione da parte di ognuno di essere “nel giusto”, senza considerare che anche l’altro interlocutore la pensa allo stesso modo! Di certo, ciò che crea qualche problema in più nel gdr sta proprio alla base: il definirlo semplicemente gioco, fa in modo che gli individui prendano i discorsi “alla leggera” e si sentano in dovere di scrivere o parlare senza tener conto delle conseguenze. In congressi scientifici, come umanistici, spesso nascono discussioni aspre e dai toni forti, ma chi segue la tematica sa di questa possibilità. Povero gdr che, invece, viene considerato come un passatempo da poco e dannoso, non tenendo presente che i passatempi sono fondamentali per la propria serenità e senza di essi facilmente cadremmo nel buio di un’esistenza dal sapore amaro.
Allora bisogna proteggere quello spazio potenziale che sta a metà tra il piano fisico e quello mentale, che è dove “il bambino o l’adulto è libero di essere creativo” (Winnicott, 1971, “Gioco e realtà”, Armando, Roma), aspettandoci un confronto inevitabile, che può rappresentare una buona palestra per quelli “reali” al lavoro e in famiglia.

Dott.ssa Michela Cavaliere Psicologa, Esperta in età evolutiva, Consulente in sessuologia, specializzanda in psicoterapia psicoanalitica

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